Una ricetta antichissima: la comunità di Roccamontepiano lavora insieme per salvare la tradizionale cotta del mosto d’uva

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Una scommessa per il futuro. A Roccamontepiano, millecinquecento anime in provincia di Chieti, il vino cotto è una faccenda seria. Al punto che la tradizione vuole che, quando nasce un figlio, si prepari e si metta in cantina una botte di vino cotto da conservare nel tempo, magari da aprire il giorno in cui quel ragazzo o quella ragazza si sposerà. Ben più di una bevanda, il vino cotto rappresenta un motivo di orgoglio per ogni famiglia che lo produce. Diventa Presidio Slow Food la tradizionale cotta del mosto d'uva.

 

(TurismoItaliaNews) “C'è persino un po' di sano campanilismo familiare, nel senso che ciascuno conserva una propria ricetta che tramanda di generazione in generazione” spiega Adamo Carulli, presidente dell'associazione Produttori vino cotto d'Abruzzo e referente dei produttori del nuovo Presidio Slow Food della cotta di Roccamontepiano. “E quando si ha un ospite importante a casa è consuetudine aprire una bottiglia molto antica. Io stesso, qualche anno fa, ne ho assaggiato uno del 1924”.

Una ricetta antichissima: la comunità di Roccamontepiano lavora insieme per salvare la tradizionale cotta del mosto d’uva

Un Presidio a tutela del metodo di produzione

Il vino cotto non è prodotto esclusivamente a Roccamontepiano: è diffuso in diverse parti dell'Abruzzo, nelle Marche e in altre aree dell'Italia centrale, e si ottiene dalla cottura del mosto di vino. Ma il processo produttivo della cotta di Roccamontepiano avviene grazie a una tecnica particolare e soprattutto è un processo partecipato che si svolge in un centro messo a disposizione della comunità grazie a un finanziamento del locale Gal Majella Verde. Ed è stata proprio la dimensione collettiva della produzione della cotta ad aver catturato l'attenzione di Slow Food, che l'ha valorizzata istituendo un Presidio Slow Food su questa tecnica di produzione locale. Il progetto prevede che il mosto tipicamente di uve di Montepulciano d'Abruzzo sia cotto per più di sette ore, fino a ridurne la massa di circa due terzi, più di quanto si fa in altre zone d'Italia per preparare bevande simili. A quel punto si procede con la rabboccatura, cioè con l'aggiunta di mosto fresco in proporzioni uguali alla massa ridotta dal calore. “Ipotizziamo una disponibilità iniziale di cento litri di mosto: se alla fine della cottura ne rimangono trenta, se ne aggiungono altri settanta di fresco – prosegue Carulli – poi si lascia fermentare in maniera naturale e, dopo che è trascorso almeno un anno, la cotta è pronta. Più si lascia invecchiare, meglio è”. La maggior parte del mosto cotto ottenuto con il processo produttivo valorizzato dal Presidio è utilizzato per farne vino cotto, ma può anche essere ingrediente di dolci tradizionali.

I produttori che aderiscono al Presidio sono riuniti nella Società cooperativa Vino cotto, nata una quindicina di anni fa, dove i conferitori portano le uve provenienti dai vigneti della zona e dove ha sede il centro di cottura consortile. Qui ciascuno cuoce il mosto e produce il proprio vino cotto, che poi può portare a casa per l'autoconsumo oppure etichettare e mettere in commercio come cooperativa. I quantitativi sono limitati: mille, millecinquecento bottiglie, all'incirca dieci quintali di vino cotto all'anno. “Ma senza il centro di cottura il prodotto sarebbe gravemente a rischio di scomparsa – sostiene la referente Slow Food del Presidio, Enca Polidoro – la produzione domestica del vino cotto non è più praticabile come un tempo: le condizioni abitative e le abitudini di vita sono cambiate e nelle cucine moderne mancano gli spazi e le attrezzature che un tempo rendevano possibile questa antica lavorazione. Il centro di cottura invece tiene viva la tradizione, così come contribuisce a farlo la festa del vino cotto che quest'anno si celebra l'8 e il 9 novembre”.

Una ricetta antichissima: la comunità di Roccamontepiano lavora insieme per salvare la tradizionale cotta del mosto d’uva

Lo sguardo rivolto al futuro

Un tempo il mosto si cuoceva in un grande paiolo di rame, lu callare, all'interno del quale si collocavano anche un pezzo di ferro, come anodo per attrarre il rame, e un piatto rotto, per regolare l'ebollizione tramite la porosità della terracotta. Oggi nel centro di cottura di Roccamontepiano si usano calderoni di acciaio con sistemi che consentono di controllare la temperatura e far sì che il mosto non bruci: ma un vecchio paiolo in rame è ancora presente a ricordo di come si lavorava un tempo. La cotta di Roccamontepiano non rappresenta però soltanto la testimonianza di un passato che sarebbe un peccato perdere, né soltanto un momento di convivialità: secondo Polidoro, la nascita del Presidio Slow Food può rappresentare “la spinta che serve a questo territorio per rilanciarsi, uno strumento di promozione e divulgazione, oltre che un modo per coinvolgere le generazioni più giovani. Le sensazioni sono buone: ho visto molto entusiasmo da parte dei soci e dei conferitori della cooperativa e la volontà della gente del posto di portare avanti questo progetto è forte”.

 

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