Francia, dove il pasto è patrimonio: 739 sapori, grandi vigneti e un anno di feste per i 15 anni Unesco
Giovanni Bosi, Parigi
Sinonimo di arte di vivere e piaceri gourmet, la Francia torna sotto i riflettori come destinazione d’eccellenza per chi viaggia con forchetta e calice. Il 2025 è un anno speciale: si celebra il 15° anniversario dell’iscrizione del “Pasto gastronomico dei Francesi” nella lista del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Un riconoscimento che non premia solo ricette e tecniche, ma una pratica sociale fatta di convivialità, abbinamenti cibo-vino, tempi lunghi a tavola e un legame profondo con i territori. In tutto il Paese, da nord a sud, il compleanno sarà un susseguirsi di banchetti collettivi, cene a quattro mani, visite in cantina, mercati straordinari e percorsi didattici dedicati al gusto consapevole.
(TurismoItaliaNews) Dietro il mito c’è la sostanza dei numeri Ben 739 tra Dop, Doc e Igp, 17 grandi vigneti di fama mondiale, oltre 600 ristoranti stellati Michelin, decine di Strade del vino e migliaia di marchés de producteurs che animano piazze e quartieri: la Francia è un atlante di sapori in cui ogni regione rivendica la propria identità. Dalla Borgogna delle grands crus al Bordeaux dei châteaux, dallo Champagne con le sue crayères all’Alsazia dei villaggi a graticcio, fino alla Valle del Rodano e alla Loira dei castelli; e poi le tavole di Lione, capitale del gusto, la Provenza profumata di erbe e oli, la Bretagna dell’oceano e delle ostriche, la Normandia di burro e formaggi, i Paesi Baschi dove la cucina parla di Atlantico e montagne.
Il fascino è nella varietà: centinaia di specialità regionali e prodotti tipici – formaggi a latte crudo, salumi artigianali, mieli monoflora, pani e burri d’origine protetta – diventano ingredienti di menu contemporanei firmati da chef che coniugano tradizioni ancestrali e creatività. Accanto ai templi dell’alta cucina, vive una rete di bistrot, auberge e chambres d’hôtes dove l’accoglienza famigliare incontra il rigore della selezione delle materie prime. È qui che si compie la liturgia del pasto “alla francese”: aperitivo, entrée, piatto, formaggi, dessert, caffè – un percorso che valorizza i tempi lenti e l’abbinamento con i vini del territorio.
L’enoturismo è la chiave di volta per entrare in questo mondo. Le strade del vino guidano tra filari, cave storiche, cantine d’autore e piccoli vignerons che aprono le porte per degustazioni e laboratori di assemblage. Durante le vendemmie, molte tenute invitano i viaggiatori a vivere la raccolta e la pigiatura, mentre nei villaggi si moltiplicano feste del raccolto, mercati tematici, cene in terrazza. L’esperienza prosegue in città: tour nei mercati coperti, corsi di cucina, percorsi museali tra arte, design e gastronomia.
Tutto questo non è semplice edonismo: è una cultura della qualità che tutela saperi, sostenibilità e filiera corta. Le denominazioni Dop/Doc/Igp sono garanzia di provenienza e metodo, mentre chef e vignaioli lavorano su stagionalità, biodiversità, riduzione degli sprechi. Il risultato è un mosaico che unisce paesaggio, prodotti e ospitalità: si può partire per la Francia con l’idea di un grande ristorante e ritrovarsi innamorati di un piccolo caseificio di montagna, di un forno di campagna o di una brasserie di quartiere.
Che siate gourmet in cerca di tavole d’autore, wine lovers alla scoperta dei grandi cru o viaggiatori che desiderano una fuga autentica, la Francia apre le sue porte con un invito semplice e irresistibile: sedersi, condividere, assaporare. Perché qui ogni degustazione diventa emozione, ogni incontro un racconto, ogni sosta il piacere dell’attimo presente. E il viaggio – tra terroir, mercati e calici – continua, portando con sé il profumo di un paese che ha fatto del savoir-vivre un patrimonio da vivere ogni giorno.
Nouvelle-Aquitaine
Dove si cucina l’attimo: Les Prés d’Eugénie e la lezione di lentezza
Nelle Landes, tra filari di mais, boschi di querce e profumo di resina, c’è un luogo che ha trasformato la cucina in un gesto di contemplazione. Les Prés d’Eugénie, indirizzo Relais & Châteaux nel borgo termale di Eugénie-les-Bains, celebra da mezzo secolo un’idea precisa: si cucina come si coltiva un orto. Con lentezza, con rigore, lasciando spazio alla meraviglia. Qui la scuola fondata da Michel Guérard – padre nobile dell’alta cucina francese – festeggia 50 anni di attività e rinnova un rito che mette al centro stagioni, territorio e gesti essenziali.
Il cuore pulsante è una grande serra, chiara e ariosa, dove la luce filtra come in una cattedrale vegetale. È qui che lo chef Hugo Souchet guida i laboratori: quattro ore in cui ogni allievo impara a leggere il prodotto prima ancora di impugnare il coltello. Il percorso è pratico, scandito da ritmi agricoli più che da tempi di brigata: si osserva, si tocca, si pulisce, si affetta, si cuoce. L’obiettivo non è ripetere a memoria una ricetta, ma imparare a cucinare l’attimo, cogliendo maturazioni, profumi, consistenze.
Il programma segue il calendario naturale. Menù delle feste, selvaggina, funghi, terrine: i temi cambiano, ma la grammatica resta la stessa. Brodi limpidi e fondi scuri insegnano la pazienza; verdure e erbe aromatiche mostrano come la freschezza possa diventare struttura; carni e pesci raccontano le cotture rispettose che preservano umori e sapori. Alla fine di ogni sessione, l’insieme dei piatti compone un piccolo racconto: una tavola che profuma di bosco in autunno, di sottobosco dopo la pioggia, di festa nei mesi d’inverno.
La filosofia è chiara: filiere corte e agricoltura biologica non sono slogan, ma pratica quotidiana. Molte materie prime arrivano dagli orti della proprietà e dai produttori del circondario; il resto viene selezionato con la stessa cura con cui si sceglie un vino per l’abbinamento. Ogni ingrediente entra in cucina con il suo passaporto di origine e stagione: il rispetto del terroir è parte integrante della lezione, tanto quanto l’uso del coltello o la montata di una salsa. A Les Prés d’Eugénie la didattica si intreccia con lo stile di vita. Il tempo lungo della tavola, la convivialità senza fronzoli, l’attenzione alla presentazione come linguaggio: tutto concorre a un’idea di eleganza sobria che Guérard ha codificato e che oggi Souchet tramanda. La cucina diventa così trasmissione – di saperi, di gesti, di sensibilità – e luce, quella che attraversa la serra e illumina il lavoro sulle stagioni.
L’esperienza è sensoriale prima che tecnica. Le mani imparano a riconoscere la maturità di un frutto, l’orecchio ascolta lo sfrigolare giusto di una padella, l’olfatto distingue le note di un fondo ben ridotto; il palato fa da giudice, alla ricerca dell’equilibrio. È un metodo che restituisce autonomia: si esce con ricette, certo, ma soprattutto con la capacità di decidere cosa cucinare in base a ciò che il mercato – o l’orto – offre quel giorno.
In un momento storico che chiede cucina sostenibile e consapevole, Les Prés d’Eugénie offre una risposta chiara: non servono effetti speciali, servono materie prime integre e attenzione al dettaglio. E serve un luogo che, come questo, sappia ispirare. Tra le aiuole ordinate e i banchi di lavoro lucidi, la Nouvelle-Aquitaine rivela il suo carattere: una regione dove l’arte di vivere passa dalla tavola e la tavola torna a essere rituale condiviso. Per chi cerca un corso che sia anche viaggio interiore, queste quattro ore in serra valgono come un promemoria: la cucina non è performance, è cura. Di sé, degli altri, del territorio. E in questa storia di eleganza, trasmissione e luce, il segreto è tutto nel tempo dedicato a ogni singolo gesto.
Centro-Valle della Loira
Il vino che fa domande: al Clos des Quarterons la Loira diventa una “connessione vivente”
Nel cuore della Centro-Valle della Loira, a Saint-Nicolas-de-Bourgueil, il Clos des Quarterons non si limita a produrre bottiglie: mette in scena un’idea di vigneto come organismo vivo, capace di legare suolo, clima e persone. Qui la famiglia Amirault ha scelto da tempo una rotta chiara: agricoltura biologica e biodinamica certificata Demeter, tutela della biodiversità e una vinificazione che procede parcella per parcella, per preservare identità e sfumature. Ne nasce un racconto in etichetta: ogni vino è la traduzione fedele di un luogo, di una stagione, di un gesto.
Il lavoro in campagna è improntato all’equilibrio. Il suolo viene rispettato e nutrito, il vigneto è accompagnato lungo il ciclo vegetativo con pratiche dolci e predilige circuiti corti di approvvigionamento. La biodiversità non è slogan ma metodo: siepi, aree inerbite e micro-habitat favoriscono impollinatori e predatori naturali, migliorando la resilienza del sistema. In cantina la stessa coerenza: microvinificazioni per singolo appezzamento, interventi misurati, scelte tecniche calibrate per far emergere il terroir di Saint-Nicolas-de-Bourgueil, patria di rossi fini e tesi che parlano la lingua della Loira.
L’idea di trasparenza guida anche l’enoturismo. Il Clos ha progettato un percorso didattico in cui la visita diventa un’indagine: mappe dei suoli, tappe tra i filari, spiegazioni sui marchi di qualità e sul significato concreto di una certificazione Demeter. Si affrontano temi attuali – cambiamento climatico, gestione dell’acqua, calendario dei lavori – insieme alle scelte impegnate del team: quando vendemmiare, come proteggere le piante in annate estreme, perché preferire pratiche che costano tempo ma restituiscono autenticità.
La degustazione è costruita come un laboratorio sensoriale. Si assaggiano vini provenienti da parcelle diverse per leggere, nel bicchiere, le differenze di suolo, esposizione e microclima; si confrontano annate per capire come la meteorologia diventi materia enologica; si ragiona su stili di vinificazione e tempi di maturazione. Non c’è un copione rigido: la conduzione è dialogica e invita a fare domande. L’obiettivo dichiarato è duplice: offrire risposte chiare e lasciare al visitatore nuovi interrogativi su vino, terra e futuro.
Il messaggio è potente nella sua semplicità: il vino, qui, non è un prodotto finito ma una relazione. Tra il vignaiolo e la sua parcella, tra il paesaggio e chi lo attraversa, tra chi beve e ciò che sceglie di sostenere. Il Clos des Quarterons rivendica l’autenticità dei terroir e la trasforma in un atto culturale: bere diventa capire, scegliere diventa partecipare. Per chi cerca un’esperienza che vada oltre il banco d’assaggio, Saint-Nicolas-de-Bourgueil offre dunque una bussola preziosa: al Clos des Quarterons la Loira non si visita soltanto, si ascolta. E quando si esce dalla cantina, con qualche risposta in più e nuove domande in tasca, si scopre che quella “connessione vivente” promessa all’ingresso è già diventata memoria, gusto e consapevolezza.
Hauts-de-France
La città che si beve: con L’Échappée Bière Lille racconta il patrimonio brassicolo
In una regione che guarda al Belgio e parla la lingua delle Fiandre, L’Échappée Bière ha trasformato la cultura brassicola in una chiave di lettura del territorio. Prima agenzia turistica dedicata alla birra tra Francia e Belgio, propone un modo diverso di esplorare gli Hauts-de-France: partire dal bicchiere per capire la storia, i mestieri, le architetture e le abitudini quotidiane. A Lille, il Beer Tour è un viaggio urbano che mette al centro il patrimonio birraio: una guida esperta conduce i visitatori tra le strade della Vieux-Lille, negli estaminet storici e nei nuovi birrifici artigianali, raccontando saperi antichi e fermenti contemporanei.
Il percorso comincia dove tutto ha avuto origine: tra i vicoli in pietra, le facciate fiamminghe e gli ex quartieri manifatturieri che, nell’Ottocento, ospitavano malterie e birrerie. Qui si ripercorrono le tappe che hanno fatto della birra una componente identitaria: dalle tecniche medievali al boom industriale, fino alla rinascita artigianale degli ultimi anni. Ogni sosta è un capitolo: si parla di malti e luppoli, di acqua e lieviti, di stili locali – dalla bière de garde alle interpretazioni contemporanee – e del dialogo con la vicina tradizione belga.
Non è la classica visita con assaggi in fila. L’Échappée Bière costruisce un tour esperienziale: si impara a leggere il colore e la schiuma, ad allenare il naso con i profumi del malto tostato o degli agrumi dei luppoli, a capire le differenze tra fermentazioni, a scegliere il bicchiere giusto. Alle degustazioni si affiancano abbinamenti territoriali che legano cultura e gastronomia – dai formaggi Aop come il Maroilles alla carbonade flamande, fino al pane ottenuto reimpiegando trebbie di birra – per raccontare un ecosistema in cui produttori, osti e artigiani lavorano in rete.
Il Beer Tour illumina così la vitalità del settore: microbirrifici urbani che sperimentano, locali storici che custodiscono ricette di famiglia, nuovi progetti che intrecciano sostenibilità e economia circolare. Si parla di filiere corte, di acqua come risorsa da proteggere, di energie rinnovabili in produzione, di come il cambiamento climatico stia spingendo a rivedere calendari e varietà di luppolo. Lontano dai cliché, la birra diventa strumento per leggere la città: memoria dei luoghi, incontri con i professionisti, competenze in evoluzione.
Il format è pensato per un pubblico curioso, dagli appassionati ai neofiti. Le uscite durano alcune ore, si svolgono in piccoli gruppi per favorire il dialogo e sono guidate da figure con doppia competenza: divulgazione culturale e tecnica birraria. Sono previste opzioni analcoliche e una gestione attenta del consumo responsabile. La prenotazione è consigliata; il punto di ritrovo, facilmente raggiungibile a piedi o con i mezzi, permette di proseguire la visita in autonomia nei quartieri più vivi della città. Il valore aggiunto sta nella narrazione. L’Échappée Bière non colleziona indirizzi: costruisce un racconto coerente che lega tradizioni regionali e nuova scena craft, mostrando come la birra sia un patrimonio vivo degli Hauts-de-France. Un patrimonio che si vede nei dettagli – una vecchia insegna smaltata, un cortile di malteria riconvertito, una ricetta salvata dall’oblio – e che oggi genera economia, turismo, socialità.
Per chi sceglie Lille, il Beer Tour è il modo giusto per entrare in sintonia con la città: camminare, ascoltare, assaggiare. Alla fine restano i sapori, certo, ma soprattutto una mappa mentale fatta di storie e indirizzi da tornare a frequentare. Perché qui la birra non è solo una bevanda: è una chiave di lettura del territorio, un ponte tra passato e futuro, un invito a riscoprire la città con tutti i sensi.
Parigi Île-De-France
Parigi, l’eccellenza che si impara: Le Cordon Bleu apre le sue cucine a tutti
Fondata nel 1895, Le Cordon Bleu Paris è una delle istituzioni più riconoscibili della cucina francese: un nome che evoca rigore, tecniche d’alta cucina e una tradizione che ha fatto scuola nel mondo. Oggi quel patrimonio non resta dietro le porte di una brigata professionale: la scuola lo trasmette, mettendolo a disposizione anche di chi è semplicemente curioso di sperimentare l’arte del gusto. Nel cuore di Parigi Île-de-France, l’istituto apre gli spazi didattici a un pubblico ampio con laboratori di pasticceria, corsi di cucina e iniziazioni all’enologia. La formula è flessibile: poche ore per un assaggio operativo dei fondamentali, oppure più giorni per entrare nel merito di metodi, tempi e sequenze. L’obiettivo è chiaro: rendere accessibili i principi che regolano l’alta cucina senza rinunciare alla disciplina che la contraddistingue.
A guidare i partecipanti sono chef formatori che portano in aula il linguaggio della cucina professionale e lo traducono in gesti essenziali: tagli, cotture, emulsioni, impasti, montate. Si lavora sulla precisione, sulla gestione delle temperature, sulla sequenza delle operazioni e sull’equilibrio tra sapori e consistenze. In pasticceria, l’attenzione va a impasti e creme, lievitazioni, glasse e decorazioni; in cucina, al rapporto tra materie prime, salse madri e cotture rispettose; nell’enologia, alla degustazione consapevole, agli abbinamenti e alla lettura del terroir.
Il filo conduttore è la trasmissione: non solo ricette, ma metodo e cultura. Ogni modulo inserisce i contenuti pratici in un contesto più ampio, quello del patrimonio culinario francese, che ha codificato tecniche e rituali diventati riferimento globale. La tradizione è presentata come un organismo vivo: si impara “il perché” oltre che “il come”, dal senso di una salsa alla logica di una mise en place, fino al rapporto tra estetica del piatto e funzionalità in servizio.
L’impostazione resta esigente ma accessibile. Il percorso di ciascun allievo è scandito da esercitazioni con feedback immediato, momenti di assaggio guidato e verifiche dei risultati. Il lessico professionale convive con un approccio inclusivo: chi entra per curiosità trova strumenti concreti per cucinare meglio a casa, chi desidera approfondire scopre standard e procedure che definiscono la qualità in cucina.
Vivere questa esperienza a Parigi è parte integrante del racconto. Fuori dall’aula, la città offre mercati, pâtisserie e brasserie che aiutano a riconoscere nella quotidianità ciò che si è visto al banco di lavoro: la bellezza dei gesti, la cura della presentazione, l’idea di convivialità che mette insieme tecnica e piacere del gusto. È qui che la lezione si completa: tra pratica, osservazione e una cultura gastronomica che resta tradizione viva.
Per chi cerca un contatto diretto con l’eccellenza, Le Cordon Bleu Paris propone dunque un patto semplice: entrare in cucina per comprendere, non solo per replicare; allenare la mano per dare forma al sapore; portare a casa non solo ricette, ma criteri. È la promessa di una eredità condivisa: quella che rende la cucina francese famosa nel mondo e che, da Parigi, continua a essere trasmessa a tutti.
Bretagna
Tra maree e kouign-amann: a piedi da Saint-Malo a Cancale fino a Saint-Suliac
C’è una Bretagna che si assapora passo dopo passo: sale sulle labbra, luce che cambia con le nuvole, profumi di burro salato e salsedine. Tra la città corsara e la baia di Mont-Saint-Michel, un tour a piedi disegna un triangolo perfetto – Saint-Malo, Cancale, Saint-Suliac – che unisce mare, artigianato e sapori identitari. Un itinerario semplice e accessibile tutto l’anno, da vivere al ritmo delle maree e della celebre luminosità bretone.
A Saint-Malo la partenza ha il suono delle pietre. Le stradine di acciottolato della città intra-muros invitano a rallentare: vetrine minute, cortili nascosti, piccoli laboratori dove la manualità è ancora regola. Entrare significa scoprire borse nate da vele riciclate, leggere la trama delle marinières a righe 100% made in France, provare gioielli artigianali che raccontano mare e vento. È shopping consapevole, sostenuto da una filiera corta di botteghe. Le pause sono un rito: un caffè al bancone tra mappe nautiche e legno vissuto, poi l’immancabile kouign-amann, dolce stratificato e lucente, che sa di forno e memoria. Il palato si prepara con spezie e burro salato: la grammatica di una cucina che non teme il carattere.
La rotta costiera conduce a Cancale, porta d’ingresso alla baia di Mont-Saint-Michel e capitale naturale delle ostriche. Qui il tempo si misura sulle maree. Con la bassa, il litorale si apre e il paesaggio rivela la sua architettura produttiva: allevamenti a vista, file ordinate di tavole e gabbie, trattori che disegnano scie sulla sabbia. Camminare accanto a questo reticolo è una lezione di geografia e mestiere; poi si risale sul lungomare per il momento più atteso: un piatto di ostriche freschissime aperte all’istante, davanti al mare, con una spruzzata di limone e la vista che rincorre l’orizzonte. Qui l’essenziale è tutto: guscio, iodio, luce.
La tappa finale è Saint-Suliac, gioiello storico incastonato sulle rive della Rance. Il registro cambia: dai grandi spazi della baia si passa all’intimità di un villaggio fiorito, con vicoli stretti, pietra chiara, reti di pescatori appese alle facciate, orti minuscoli che profumano di erbe. È il luogo giusto per la chiusura in chiave bretone: un bicchiere di sidro locale, magari abbinato a una galette, e il giro lento tra le case che salgono e scendono verso l’acqua. La luce, al pomeriggio, rimbalza sul fiume e disegna fotografie naturali.
Questo anello pedonale è più di una somma di tappe: è un racconto coerente di autenticità. Le mani che cuciono le borse nelle botteghe di Saint-Malo, quelle che selezionano le ostriche a Cancale, chi cura gli allestimenti floreali a Saint-Suliac: ogni gesto compone un mosaico di savoir-faire dove tradizione e quotidiano coincidono. Camminare, qui, significa assaggiare: di bottega in bottega, di marea in marea, fino ai vicoli fioriti dove il tempo sembra fermarsi. Un tour breve nelle distanze, ricchissimo nelle sensazioni, che restituisce la Bretagna per quello che è: mare e delizie, memoria e presente, essenziale e sorprendente.
Occitania
Il ristorante che non supera i 42 km: La Table 42, manifesto occitano di cucina coerente
In Occitania, nel borgo rurale di Bezonnes (Aveyron), c’è un tavolo che ha messo un compasso sulla carta del territorio e l’ha fermato a 42 chilometri. È la regola fondativa di La Table 42, il ristorante gastronomico di Alix e Antonin Ponsbellegarde: cucinare esclusivamente con ciò che la terra offre entro quel raggio. Non un vezzo, ma una scelta netta che definisce identità, etica e gusto. Qui la cucina diventa pratica territoriale, più che repertorio di ricette, e l’aderenza alle stagioni non è un tema ma un vincolo creativo.
Il risultato è una cucina vegetale precisa, nutrita dalla fermentazione, dalle materie prime e dal rapporto diretto con i produttori. L’orto allargato di La Table 42 è fatto di contadini, allevatori, raccoglitori, mugnai e artigiani che abitano entro quei 42 chilometri: la geografia detta il paniere, la stagione detta il ritmo, la tecnica fa il resto. In menu – unico a pranzo – tutto parla la lingua dell’essenziale: pane e condimenti fatti in casa, bevande fermentate che accompagnano e amplificano i sapori, scarti valorizzati in brodi, polveri, oli, aceti. L’idea è zero sprechi non come slogan, ma come disciplina quotidiana: ogni gesto conta, ogni trimmatura ha un futuro, ogni preparazione genera materia per la successiva.
La fermentazione è la grammatica sottotraccia che lega i piatti: vegetali maturati con pazienza, acidità misurate, profondità di gusto che nascono dal tempo più che dal fuoco. È una cucina che ricerca equilibri netti – sapido, acido, amaro, dolce – e li mette al servizio della materia. Nessuna sovrastruttura: pochi elementi, cotte rispettose, salse calibrate. La creatività si misura sulla coerenza: se un ingrediente non cresce o non si trasforma entro il cerchio dei 42 chilometri, semplicemente non entra in cucina.
Intorno al ristorante, Projet 42 disegna l’ecosistema che rende credibile e replicabile il manifesto. Un panificio integra il lavoro sulle farine locali e consegna al tavolo un pane vivo, quotidiano. Un negozio di alimentari seleziona prodotti del medesimo raggio, sostenendo la filiera corta anche oltre il servizio. Una libreria gourmet alimenta la dimensione culturale: libri, quaderni tecnici, editoria indipendente per chi vuole capire cosa c’è dietro un piatto. E uno spazio di ricerca sull’alimentazione sostenibile mette in rete pratiche, dati, prototipi: qui si sperimentano metodi, si valutano impatti, si condividono risultati con il territorio.
La Table 42 è, dichiaratamente, un progetto politico e poetico. Politico perché sceglie di ridurre la dipendenza da filiere lunghe, emissioni e intermediari, restituendo valore a chi coltiva e trasforma vicino. Poetico perché celebra il tempo – quello che fa maturare, fermentare, sedimentare – e la bellezza dell’essenziale. In sala, questa visione diventa esperienza leggibile: un percorso lineare, ritmo concentrato, corrispondenze evidenti tra ciò che si vede nel piatto e ciò che si può incontrare uscendo dal locale, nei campi e nei laboratori del circondario.
Nell’Aveyron, dove i paesaggi alternano pascoli, boschi e altipiani, La Table 42 mette in scena una cucina di relazione. La distanza massima non è un limite ma un criterio: orienta gli acquisti, organizza le giornate, dà sostanza al racconto. Così nascono piatti che non cercano l’effetto speciale ma la verità del luogo: cromie sobrie, consistenze nette, profumi puliti. Le bevande fermentate della casa – coerenti con la stessa logica territoriale – accompagnano senza coprire, amplificando i chiaroscuri del vegetale e invitando a un consumo consapevole.
In un tempo in cui la sostenibilità rischia di ridursi a formula, La Table 42 ne restituisce la concretezza: chilometri dichiarati, scarti tracciati, fornitori nominati, processi spiegati. E lo fa con una leggerezza rara: nessuna retorica, nessuna morale servita a tavola, solo piatti che stanno in piedi da soli e raccontano, boccone dopo boccone, perché quei 42 chilometri non sono un’ossessione ma una promessa mantenuta. Per chi arriva in Occitania in cerca di nuove rotte del gusto, Bezonnes offre così un indirizzo che pensa a tutti gli esseri viventi: alle persone che siedono al tavolo, a quelle che lavorano la terra e a un paesaggio che resta protagonista. La Table 42 non chiede di crederle sulla parola; invita a vedere, assaggiare, capire. E quando si esce, la sensazione è chiara: la coerenza può essere deliziosa.
Pays de la Loire
Anjou, dentro il mito Cointreau: tra rame e scorze d’arancia il savoir-faire diventa patrimonio
A Saint-Barthélémy-d’Anjou, alle porte di Angers, c’è un luogo in cui l’arte liquoristica si lascia vedere, annusare e comprendere. Il Carré Cointreau è molto più di una visita d’azienda: è un racconto sensoriale sullo spirito delle grandi maison dell’Anjou, dove tutto comincia con i piccoli frutti del territorio e con l’amaro delicato della scorza d’arancia. Qui l’eleganza industriale incontra la memoria, e la produzione diventa cultura materiale: rame, vetro, carta, profumi. Il percorso apre sulla materia prima. L’Anjou entra in scena attraverso essenze e agrumi, in una grammatica di profumi che spiega il perché di ogni scelta: varietà, maturazione, taglio della scorza. Il lessico è quello della precisione: il bilanciamento tra dolcezza e amaro, tra freschezza e profondità aromatica. Subito dopo, lo sguardo sale sugli alambicchi di rame: superfici lucide, curve antiche, tubazioni come partiture musicali. Non è scenografia, ma la meccanica del gusto. Qui si decantano i principi della distillazione: tempi, temperature, frazionamenti, con la chiarezza di un gesto ripetuto e tramandato.
Attorno, un gabinetto delle curiosità restituisce la dimensione intima della maison: foto d’archivio, oggetti rari, manifesti pubblicitari d’epoca. Ogni dettaglio è una tessera del mosaico che ha trasformato un’intuizione familiare in un’icona mondiale. La narrazione non indulge nel mito fine a sé stesso: mostra il rigore dei processi, la trasmissione dei saperi, l’evoluzione delle tecniche senza tradire l’identità originaria. È così che il visitatore comprende cosa significhi, per una casa liquoristica, tenere insieme stabilità del gusto e ricerca continua.
La novità che sigilla il racconto è più che simbolica: il savoir-faire dei liquoristi è stato recentemente inserito nell’inventario del Patrimonio culturale immateriale di Francia. Un riconoscimento che consacra un mestiere al centro dell’identità artigianale dei Pays de la Loire e che trova in Cointreau una delle sue espressioni più compiute. Patrimonio, qui, non è parola immobile: è un cantiere in progress, fatto di gesti precisi, memoria documentata e ispirazione. Il Carré Cointreau lavora sulla pedagogia del gusto. Le sale non sono un museo muto: sono stazioni di comprensione, dove si impara a leggere un profilo aromatico, a riconoscere una nota di scorza candita o di fiore d’arancio, a capire come materia prima, tecnica e tempo determinino un carattere.
La visita ha il ritmo di una infarinatura tecnica che resta accessibile: niente virtuosismi, piuttosto esempi concreti, campioni, strumenti. L’idea è chiara: non si viene a consumare, ma a capire. A dare un nome alle sensazioni, a collegare un’etichetta a un territorio e a una storia familiare. Questa immersione sensoriale illumina anche la dimensione industriale come paesaggio culturale. Gli alambicchi diventano architetture, i registri di produzione archivi, le vecchie campagne pubblicitarie memoria collettiva. È il modo in cui il Carré Cointreau racconta la propria coerenza: una maison che ha saputo custodire la propria ricetta e, insieme, aggiornare linguaggi, pratiche, responsabilità. L’Anjou, in controluce, appare per ciò che è: territorio di savoir-faire dove l’innovazione non smentisce la tradizione, la precisa amplifica.
Alla fine del percorso resta una sensazione duplice. Da un lato, la chiarezza tecnica: come un profilo aromatico nasca da materie prime selezionate, come la distillazione scolpisca i toni, come il taglio delle frazioni scriva l’equilibrio. Dall’altro, la consapevolezza culturale: un liquore è anche il prodotto di una società che disegna bottiglie, stampa manifesti, colleziona ricette di famiglia, evolve con i gusti del suo tempo.
Per chi attraversa i Pays de la Loire alla ricerca di luoghi del fare, il Carré Cointreau è un passaggio essenziale: un laboratorio di identità dove l’Anjou si racconta con linguaggi diversi – tecnico, storico, sensoriale – e invita a una fruizione lenta e informata. Si esce con qualche nuova certezza (il rame non mente, le scorze parlano) e con domande più interessanti: su come si tramanda un gusto, su come si misura la qualità, su quanto memoria e innovazione possano stare nello stesso bicchiere. In questo equilibrio, l’eleganza di una grande maison trova la sua attualità.
Corsica
Dove il paesaggio si assaggia: sulla Route des Sens Autentiques tra bergerie, giardini e botteghe di territorio
C’è una Corsica che non si guarda soltanto: si incontra, si annusa, si assaggia. È la Corsica della Route des Sens Autentiques – la Strada dei Sensi Autentici – un itinerario diffuso che unisce costa ed entroterra, produttori e artigiani del gusto, stagioni e saperi contadini. Non è una strada unica su una mappa: è una costellazione di tappe che raccontano un’isola generosa, modellata da clima, altitudini e savoir-faire tramandati.
Il viaggio comincia spesso al mercato, tra banchi che profumano di maquis: erbe selvatiche, miele aromatico, confetture di fico e clementina, pani scuri di farina di castagna. Da lì si sale verso i villaggi in pietra, dove le antiche bergerie custodiscono formaggi affinati con pazienza – dal fresco stagionale alle tomme di capra e pecora – e dove la salumeria corsa (prisuttu, lonzu, coppa) riposa in cantine ventilate. In cantina, il bicchiere parla le lingue dell’isola: Vermentinu dalla costa, Niellucciu e Sciaccarellu dalle colline, vigneti sospesi tra mare e vento.
Ogni tappa ha un volto e una storia. Nel laboratorio di confetture si pesa la frutta al grado, si cuoce a piccole masse per non perdere profumo; nel frantoio si assaggia un olio verde e piccante, figlio di raccolte anticipate e cultivar locali; nell’apiario si scopre come nascano i mieli del maquis – castagno, erica, agrumi – diversi a seconda della fioritura e dell’altitudine. In un giardino di piante officinali, il produttore spiega la raccolta di mirto e immortelle per infusi e liquori; in un forno di paese, la farina di castagna diventa pane, torte e pulenta secondo tradizione.
Il filo che lega il percorso è la stagionalità. In primavera dominano erbe e mieli chiari; in estate esplodono frutti, orti e bianchi marini; l’autunno è tempo di castagne, funghi e rossi eleganti; in inverno arrivano gli agrumi, le salature lente, le zuppe di verdure e legumi. La Route des Sens Autentiques diventa così un calendario vivente, dove il piatto cambia con la luce del giorno e l’altitudine del luogo.
L’esperienza è sempre partecipata. A volte è una tavola apparecchiata sotto le travi di una bergerie, altre un banco di lavoro condiviso in laboratorio, altre ancora una sosta alla curva di un sentiero, con il vento che porta sale e macchia. Si assaggia, si condivide, si capisce: come si alleva, perché si affina in un certo modo, quale annata ha inciso su miele o vino, come si riducono gli sprechi usando scorze, siero, erbe spontanee. La cucina qui è vera e precisa: poche cose, fatte bene, con il gusto che viene dal posto.
Dietro ogni prodotto c’è un impegno. Piccole aziende familiari che curano la terra, scelgono filiere corte, difendono biodiversità e pratiche pulite. La Route des Sens Autentiques valorizza questa rete e chiede al viaggiatore di farne parte con rispetto: del tempo, dei prezzi giusti, dei ritmi di chi lavora. Lontano dai cliché, l’isola si racconta attraverso gesti: un coltello che incide una scorza di arancia, una mano che rovescia una forma dal fuscello, un tappo che salta in cantina tra risate e storie. Alla fine del tour resta una mappa sensoriale: indirizzi, profumi, volti. Ma soprattutto una certezza: questa strada non si visita, si vive. È un invito a rallentare, a scegliere curve secondarie, a fermarsi dove la vista chiama e il profumo conferma. Perché in Corsica la cucina è davvero un paesaggio: cambia con il vento, si riconosce nel silenzio di un entroterra, esplode sul mare, e torna in tavola con la semplicità di chi sa.
Sulla Route des Sens Autentiques si parte curiosi e si torna coinvolti: con un formaggio in zaino, un barattolo di miele in tasca, storie nelle orecchie e quell’odore di macchia mediterranea che, una volta sentito, non si dimentica più.
Borgogna | Montagne del Giura
Dal calice alla festa: tra Vosne-Romanée e Dole, due modi di assaggiare Borgogna e Giura
Due territori, un solo filo conduttore: il gusto. In Borgogna, lungo la Strada dei Grandi Crus, Vosne-Romanée invita alla sosta edonistica all’Hôtel Le Richebourg; poco più a nord, nelle Montagne del Giura, Dole accende la città con il Weekend du Chat Perché (26–28 settembre 2025), tre giorni in cui chef, produttori e artigiani trasformano le vie in un teatro del palato. È un itinerario che unisce relax e festa, benessere e convivialità: un ritratto contemporaneo dell’arte di vivere francese.
All’ombra dei filari più famosi del mondo, l’Hôtel Le Richebourg (4 stelle) è uno scrigno di eleganza contemporanea incastonato tra vigne leggendarie. Qui la Borgogna si vive con tutti i sensi: camere luminose, accenti di design e soprattutto la VineaSpa, un’oasi avvolgente dove il tempo rallenta prima (o dopo) la degustazione. In tavola, la cucina gourmet dialoga con il territorio: ingredienti locali, ritmo di stagione e carte dei vini che raccontano il mosaico dei climat borgognoni. Fuori, i sentieri tra i vigneti chiamano alla passeggiata: è l’occasione per leggere il paesaggio, entrare in cantina, ascoltare la geografia dei suoli nel calice. Relax, assaggi e cammino: un trittico essenziale che restituisce l’essenza dell’art de vivre borgognona, tra misura e piacere. Cambiando scenario, Dole porta il gusto in strada con il Weekend du Chat Perché.
Dal 26 al 28 settembre 2025 la città si fa palcoscenico vibrante: mercati gastronomici, laboratori, spettacoli e incontri con chef, produttori e artigiani diventano il cuore di una festa che celebra l’identità golosa del Giura. L’omaggio è per Marcel Aymé, lo scrittore nato in queste terre: la letteratura fa da bussola a un percorso che intreccia sapori e memoria. Ospite d’onore è Mâcon, ponte gioioso tra i profumi della Borgogna meridionale e lo spirito montano del Giura: un invito a incrociare tradizioni e nuovi saperi, a scoprire affinità e contrasti in un unico fine settimana. Il viaggio funziona come un doppio tempo: intimità e lentezza tra i vigneti di Vosne-Romanée, energia collettiva nelle piazze di Dole. Nel mezzo, la Francia del gusto che cambia ritmo senza perdere coerenza: qualità delle materie prime, attenzione ai produttori, ospitalità che mette a proprio agio. Il risultato è un’esperienza completa: si riposa, si cammina, si impara, si assaggia. E si torna a casa con una mappa di indirizzi e storie.
Borgogna e Giura, così vicine e così diverse, trovano in questo itinerario la loro sintesi: dal silenzio dei filari alla festa di piazza, il gusto diventa esperienza, relazione, racconto. E l’autunno 2025 offre la cornice perfetta per viverlo.













